Di Guido Ghezzi
Zeno era il nome che i suoi genitori avevano scelto per lui, un nome breve e facile. Invece si chiamava Zero.
Nessuno sa bene come fu che il suo nome cambiò, ed una sola lettera malandrina lo tramutò in una bizzarria anagrafica.
E come sempre quando non si conosce la ragione di una cosa, tante divengono le spiegazioni, ognuno conserva la propria ed è convinto che sia quella giusta. “E’ stato quando ho detto il nome al funzionario del comune, proprio il giorno che sei nato” diceva suo papà “non ci sentiva bene e non mi ha capito.”
“Hanno letto male nel trascrivere il nome sul registro delle nascite” diceva la mamma “chi ha scritto la denuncia di nascita ha scritto giusto ma malamente”. “Sono stati i folletti della carta” gli ripeteva sempre il nonno “Sai, quei minuscoli esserini che stanno tra le pagine dei libri e si divertono a spostare le lettere di qua e di là senza dirti niente, per scherzo”. E poi aggiungeva sempre, ridacchiando, “e su certe carte ce ne sono così tanti che non si capisce più niente di quello che sta scritto, nemmeno a rileggerlo dieci volte”
Anche Zero aveva la sua spiegazione, naturalmente. A lui Zeno non piaceva proprio, molto meglio Zero.
Anche quell’anno, come sempre, nel paese ci sarebbe stata la festa di Mezza Estate, e bisognava prepararsi adeguatamente. Ogni bambino l’aspettava con trepidazione; ci si mascherava come se fosse carnevale e poi si andava nella piazza dove distribuivano i “biscotti della montagna” e i “biscotti della valle”, i primi preparati nei borghi e nelle malghe sugli alpeggi più alti, i secondi confezionati nelle campagne. Come voleva la tradizione i biscotti venivano scambiati tra i bambini che si incontravano proprio nel paese di Zero, a metà strada tra i monti e le campagne della bassa valle.
La mamma aveva cucito un bel vestito per Zero, una specie di gran drappo bianco e verde da mettere come un mantello.
Tuttavia a Zero non piaceva molto. Aveva seguito la mamma mentre preparava il mascheramento e ogni sera, prima di addormentarsi aveva sempre lo stesso pensiero: avrebbe voluto un costume diverso, qualcosa che avrebbe lasciato tutti a bocca aperta. Ma, nonostante ci pensasse di continuo, non riusciva a trovare l’idea giusta.
E Mezza Estate si avvicinava.
Un pomeriggio, mentre stava facendo merenda con una fetta di torta di pane, preparata dal nonno con uvetta, cioccolato e pinoli secondo una segreta ed antica ricetta, guardò fuori della finestra della cucina, come era solito fare, tanto per controllare.
Il suo sguardo si posò sui fiori del giardino e sul maggiociondolo, prese il vialetto sassoso fiancheggiato da bassi carpini e noccioli, corse fin sul limitare del bosco di abeti poi volò lontano, verso le montagne ed infine vagò nel cielo grigio. Una folata di vento scompigliò i fiori e fece dondolare il maggiociondolo, il galletto segnavento sul tetto del fienile cigolò.
Poi un brontolìo lontano che pareva provenire da sottoterra rotolò giù dalle montagne.
Zero sentì un tuffo al cuore, smise di masticare, posò la fetta di torta sulla tovaglia a quadretti bianchi e rossi e s’illuminò.
Ecco! Finalmente aveva avuto l’idea giusta! Quella che aspettava inutilmente da giorni!
Ora sapeva come si sarebbe presentato alla festa di Mezza Estate!
Aprì la credenza e prese un barattolo di vetro, vuoto, di quelli in cui si teneva la marmellata, avvitò il tappo e corse fuori.
In un attimo giunse al limitare del bosco, prese il sentiero che portava alla Roccia e fuggì veloce verso l’aperta campagna, correndo in mezzo alle erbe alte e incurvate dal vento, nel frinire dei grilli e sotto un cielo sempre più cupo, tagliato dai lampi e percorso da lunghi brontolii.
Arrivò in cima alla Roccia, che sembrava tanto grande ma che in realtà era solo poco più di un macigno posato in cima alla collina e mezzo ricoperto di fiori molto piccoli e bianchi e viola, con qualche cespuglio aggrappato qua e là.
Da là sopra vedeva molto lontano, ma il paesaggio verso le montagne era velato da nubi minacciose che scorrevano veloci le une davanti alle altre. Verso la campagna e dietro casa sua invece il cielo era giallo e opaco. Era trafelato.
All’improvviso arrivò un lungo e violento colpo di vento che gli scompigliò i capelli e finì quasi per farlo cadere. Piantò bene i piedi sulla Roccia e si preparò alla battaglia, perché sapeva che la sua sarebbe stata una lotta terribile. Ma non aveva paura … o forse sì, ma non importava, era deciso, era pronto.
Guardò in alto, sopra la sua testa una nube densa, pesante e scura diventava sempre più grande, il vento era sempre più forte, le folate impetuose scuotevano i cespugli ai suoi piedi, i fiori bianchi e viola si sdraiavano al suolo, l’aria non era più calda, anzi faceva quasi freddo. Grandi gocce iniziarono a colpirlo sulle mani, sulla testa, sul naso. Ora le montagne non si vedevano più, sparite dietro un sipario fumoso e ondeggiante, il cielo era squassato dai tuoni, gli alberi più grandi sbattevano i rami disordinatamente, un picchio saettò veloce attraverso il cielo e si gettò a capofitto nel bosco.
Strinse le palpebre, aveva freddo… aveva paura.
Ma avrebbe resistito.
Quanti ne aveva visti di temporali? Tanti. Di giorno, di notte, mentre era al sicuro in casa, mentre era nei campi col nonno, mentre vagava nei boschi con papà, quando tornava a casa con i compagni di scuola. Ma ora era solo.
Era solo contro la tempesta.
Ma lui era una statua.
Una statua di ferro.
Una statua di ferro con i piedi di roccia, e non si sarebbe mosso.
Mai.
Le gocce cadevano ormai fitte, pungevano, i lampi scoppiavano e crepitavano sempre più vicini. Il paesaggio spariva poco a poco. Vedeva una luce lontana, oltre il bosco degli abeti, forse un lampione all’angolo di una fattoria, faceva compagnia; ma era sempre più fioca, tremolava sempre più, si fece incerta ed infine fu inghiottita anche lei dal temporale.
Ora era davvero solo.
Solo di fronte a quel gigante di ventopioggialampinuvolenere dalla voce potente.
Tutto era scuro intorno a lui, i colori del mondo svanivano, inghiottiti, mangiati dal gigante, lacerati nel vorticare di mille foglie strappate. La pioggia cadeva a torrenti, scrosciava senza posa spinta dal vento, non distingueva più il bagliore del lampo dal clangore del tuono, tutto era un liquido crepitio, il frastuono era sovrano.
Chiuse gli occhi, il freddo scorreva con dita di ghiaccio sulla sua pelle fin dentro le scarpe, rami e foglie lo colpivano da ogni parte, il vento lo faceva vacillare. Era terribile. La sua paura era una cosa enorme, lo travolgeva, si gonfiava dentro di lui come un fiume, come una grande onda marina, lo circondava e lo stringeva togliendogli il respiro.
Tutto sembrava svanire in un caos senza ritorno.
Sentiva il temporale ghignare assordante mentre lo spingeva giù dalla Roccia e lo accecava e lo distruggeva con i suoi dardi d’argento… .
Doveva fare qualcosa, altrimenti sentiva che non ce l’avrebbe fatta. Doveva trovare forza in qualcosa, qualche incantesimo … qualche formula magica che lo aiutasse contro il gigante di ventopioggialampinuvolenere dalla voce potente.
Iniziò a cantare, mettendo in fila suoni a caso, suoni che neppure poteva udire nel frastuono che lo circondava. Gridò più forte, ma ancora non riusciva a sentire la sua voce. Continuò a farfugliare parole e suoni a caso, interrotto dalla pioggia che gli entrava nella bocca e nel naso, poi magicamente venne fuori una filastrocca strana:
Jolli lì
Jolli là
Jollilì jollilà
Andava bene… .era magica… sì, lo sentiva.
Jollilì Jollilà
Jollilì jollilà jollipaese… jollipaeseee
E andava avanti all’infinito come se fosse viva, gli usciva dalla gola e si faceva forte, comiciava ad udire la sua voce, il suo canticchiare.
E gli dava forza.
E più il temporale infuriava più la sua canzoncina magica gli donava la forza per fronteggiarlo.
Ogni tanto apriva gli occhi, la luce dei lampi e la pioggia densa come un muro cambiavano tutti i colori, si guardava timidamente d’attorno con gli occhi stretti come due fessure e tutto era diverso. Poi guardò se stesso, le sue braccia… e anch’esse erano coperte di colori mai visti, la sua pelle era diversa, turbini di foglie gli roteavano attorno e finivano per appiccicarsi su di lui.
E la grandine, una grandine sottilissima che lo pungeva ed il gigante ghignava sempre più forte, buttandogli addosso tutto ciò che aveva.
Jollilì Jollilà
Jollilì jollilà jollipaese… jollipaeseee
Era il momento.
Aprì il barattolo e, tremando per il freddo che lo attanagliava, stese le braccia in avanti cercando di tenerlo ben dritto verso il cielo.
Chiuse di nuovo gli occhi, sentì che il barattolo si faceva più pesante, la grandine tintinnava sul vetro, si fermava tra i suoi capelli. Riaprì gli occhi e vide l’acqua che scivolava giù dalle spalle rigando le sue braccia di infiniti ruscelli che cambiavano percorso ad ogni istante come fossero vivi, come tanti serpentelli. In quel momento, con gli occhi socchiusi, si guardò meglio, guardò le sue mani, il barattolo pieno di grandine, le braccia nude, le gambe… e vide.
Ecco!
Ecco!
Ecco, pensò mentre un caos primitivo esplodeva attorno a lui ad ondate, investendolo senza sosta, ecco! Richiuse gli occhi, la grandine lo tempestava senza pietà, la pioggia entrava nel suo corpo e lo trapassava, dita gelate scorrevano tra i suoi capelli, sul collo, giù per la schiena. Il frastuono del vento era incessante, i lampi lo abbagliavano, tutto il mondo roteava attorno in una danza scomposta e indiavolata, la sua voce quasi era scomparsa, annegata nel putiferio, diluita nell’immenso cataclisma. La sua filastrocca ormai stentava a dargli forza, ma doveva cantarla ancora, e ancora, e ancora… e ancora… . Jollilì Jollilà
Jollilì jollilà jollipaese… jollipaeseee
Jollilì Jollilà
Jollilì jollilà jollipaese… jollipaeseee.
Poi, all’improvviso, la grandine cessò.
Il vento scemò di colpo, la pioggia si fece rada.
Il rumore diminuì e potè sentire la sua voce che cantava quasi nel silenzio, con un brontolio che l’accompagnava come un grande tamburo percosso mentre si allontana:
Jollilì Jollilà
Jollilì jollilà jollipaese…jollipaeseeee….
Esitò un istante poi smise di cantare e di strizzare gli occhi, ora riusciva a tenerli bene aperti e poteva girare lo sguardo attorno a sé, dove i colori riapparivano e il mondo lentamente riemergeva dalla furia del temporale. Ovunque vedeva l’impronta delle grandi mani del gigante di ventopioggialampinuvolenere. Cumuli gelati di grandine, tappeti di foglie bucate, rami divelti, l’erba sdraiata al suolo come se dormisse e laggiù in fondo, oltre il bosco di abeti il gigante di ventopioggialampinuvolenere dalla voce potente che ghignava e si allontanava verso la campagna distante con la sua corona saettante di fulmini…un passo ed un tuono…un passo ed un tuono…. Lo salutava.
Era felice. La gioia traboccava, la sentiva premere nel petto come un prurito, come un suono. Corse giù dalla Roccia scivolando sull’erba intrisa, tra i fiori schiacciati, in mezzo alle foglie strappate. Grondava acqua, acqua e felicità. Le scarpe fradicie scandivano la sua corsa folle giù per il sentiero. Ciac ciac.
Ciac ciac ciaciac ciac.
Jollilì Jollilà
Jollilì Jollilà.
Arrivò a casa in un baleno mentre il sole faceva splendere la grandine nel barattolo e lo scaldava fin nel cuore. Rimase sulla porta di casa spalancata tra le pozzanghere azzurre di fronte alla mamma al papà ed al nonno che lo guardavano sbigottiti.
“Che hai fatto?” fece la mamma “Sei impazzito?”
“Zero, sei un disastro!” disse il papà prendendo un asciugamano.
Ma Zero si sentiva felice oltre ogni misura “Ho il mio vestito per la festa…il vestito del temporale!” dise trionfante e si sedette al tavolo in cucina, dove aveva interrotto la sua merenda.
Dolce torta di pane del nonno.
Dolci biscotti della montagna.
Dolci biscotti della valle.